di Massimo Daviddi –
Mentre viaggio verso Lugano per incontrare il presidente del ‘Circolo Bergamaschi del Ticino’, Emilio Cadei, continuando la ricerca sui luoghi di socialità legati alle migrazioni storiche, la mente va alle giornate passate ad Arzo con l’amico Claudio Origoni, scrittore, docente, che spesso mi parlava delle sue radici. Adrara San Martino e altri paesi: Adrara San Rocco, Foresto Sparso, Villongo e lo vediamo nell’intenso documentario di Bruno Bergomi, ‘Fa mia ul bergum ’, dire della madre, di quei tempi duri e poi leggere, ‘Brindisi del primo fieno’, di Giorgio Orelli. “Bevo alla vostra salute, / bergamaschi che avete fatto il mio fieno…”. Entrando nello studio dell’architetto Cadei, su uno scaffale è in vista il saggio di Peter Disch dedicato al lavoro di Luigi Snozzi, uno dei più importanti testimoni dell’architettura ticinese contemporanea.
Da dove iniziamo, Emilio? “Il nostro circolo conta duecentocinquanta famiglie e trae ispirazione da quanto avviato a Bergamo nel 1967, quando un gruppo di persone realizza ‘l’Ente Bergamaschi nel Mondo ’. L’intenzione era assistere materialmente e moralmente i nostri concittadini: un organismo stabile che tenesse i contatti con loro, seguendo i fenomeni migratori locali”. Anche su un piano di ricerca? “Si voleva sapere quanti erano, dove si trovavano, come erano i rapporti con l’Italia. E’ stata la premessa per la fondazione, nel 1982, del nostro circolo, tuttora ben operante, sorto grazie a un iniziale passaparola arrivato a molte persone. Lo spirito genuino della cultura bergamasca, fatta dalle tanti mani che non avevano paura di sporcarsi”. Una finalità d’incontro e conoscenza reciproca. “Certamente. Sostenuta dal periodico trimestrale dell’Ente, su cui vengono riportate notizie del territorio e dei concittadini che vivono all’estero.
A questo si unisce il tema dell’assistenza morale e materiale, la costituzione di una biblioteca, le iniziative di formazione civica, linguistica e diverse attività ricreative come la promozione di feste annuali, concerti, recite, proiezioni cinematografiche, gite. La definizione di una comunità, nel territorio ticinese”. Il primo presidente? “E’ stato Francesco Savoldelli, che abita a Bellinzona, prendendo le mosse dall’azione di un gruppo di amici, restando in carica fino al ’98. L’aspetto, i contenuti del circolo si sono rinnovati nel corso degli anni: all’inizio emergeva il bisogno di sentirsi seguiti, parte di una storia comune. Trovarsi insieme, togliere quella paura di essere stranieri, al di là dei problemi burocratici, pur concreti; permessi, rapporti con il paese d’origine e quello ospitante, questioni che si affrontavano ma che poi lasciavano spazio alle relazioni”. Il piacere della vostra lingua dialettale. “Si’. La necessità di tenere desto il contatto con il paese d’origine, anche se sei fuori. Dialogare”.
Come avvenuto in diverse realtà, si succedono le generazioni. Cosa cambia? “Le prime, stagionali, risalgono al dopoguerra per ragioni di sussistenza; partivano, pochi abiti, le masserizie necessarie, così si spargeva la voce e altri venivano qui. La fienagione nella Valli, cinque sei mesi di lavoro, la Leventina, le cascine. I sacrifici. Le nuove generazioni portano di fatto all’insediamento, lavorando soprattutto nell’edilizia, nei cantieri, un campo che al Ticino ha dato molto, con un profilo professionale di livello. Direttori di cantiere, tecnici, ingegneri, architetti”. Un percorso di grandi trasformazioni. E i giovani nati in Ticino? “Pur essendo completamente integrati nella società, sentono il richiamo del cuore; un sentimento che resta.
Mia mamma, che vive a Pregassona, dopo cinquant’anni ogni tanto mi dice, ‘andiamo a casa!’. E’ il desiderio di tornare almeno qualche volta durante l’anno”. Un’impronta indelebile. “Una pianta sta su con le sue radici, prendendo nutrimento da quelle, come in natura”.
La vecchia littorina.
E nel presente? “Organizziamo quattro incontri annuali, un programma discusso con il comitato. Soprattutto attività culturali, ma restano punti fermi la festa campestre e quella di Santa Lucia, una tradizione molto sentita”. Momenti di aggregazione. “C’è uno scambio di vedute; nelle feste il cibo è parte rilevante, poi la briscolata, gioco tipico bergamasco dove viene fuori il nostro carattere…”. Mi parlavi, prima, del rapporto con la fede. “E’ intenso; basta pensare a Papa Roncalli. Purtroppo, da poco ci ha lasciati don Leone Lanza, nostro sacerdote spirituale”. Le ultime esperienze culturali che ricordi con piacere? “Nel 2016, un pranzo al ristorante Pavarotti e la visita guidata alla Scala.
L’anno scorso siamo andati all’Istituto Mario Negri, sempre a Milano, che tratta le malattie rare, incontrando il Professor Silvio Garattini, persona che ci ha affascinato per la sua testimonianza”. Al colloquio con Emilio Cadei, si unisce Abbondio Adobati, già nel Gran Consiglio ticinese, da quindici anni nel circolo. “Non è semplice portare avanti queste realtà nate sotto la spinta ideale del dopoguerra, cose che ho vissuto personalmente arrivando in Ticino nel 1946. Quando sono andato a lavorare nella Svizzera tedesca, ho compreso l’importanza di essere uniti, parlare la lingua nativa.
La funzione di un circolo è ancora importante, perché per guardare al futuro occorre riconoscere le origini”. A Bellinzona incontro Francesco Savoldelli, tecnico che ha lavorato molti anni a Zurigo. “Penso a due figure determinanti per la nascita del circolo: don Dino Ferrando, grande motivatore e Virgilio Bettoni, anche lui molto attivo”. Savoldelli, ricorda di “essersi trovato a sorpresa, presidente” e aggiunge di non chiedergli il perché, sorridendo. Prima di lasciarci, racconta della sua passione per i treni e l’impegno in AlpTransit. Anche se il suo pensiero, oggi, non è per i treni veloci ma per la vecchia littorina Clusone – Bergamo, 35 km l’ora. Ma si sa che la lentezza è anche una virtu’.
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