Una storia, una testimonianza umana e di lavoro artigiano, quando in tempi non molto lontani eravamo ancora noi italiani ad emigrare per cercare di vivere in maniera dignitosa e dare un senso al proprio futuro. Scritto dal nostro amico e collaboratore Massimo Daviddi di “Cittadinanze”, riesce a portare in un soffio il lettore in luoghi e situazioni oltre i confini e le distanze.
Il rapporto tra corpo e identità passa anche dai piedi. Ci fanno camminare su una strada, arrampicarci in montagna. Ogni giorno mettiamo delle scarpe, le scegliamo secondo i nostri gusti e quando sono un po’ rovinate le portiamo dal calzolaio di fiducia. Parlando con un artigiano che ha vissuto tra la Sicilia e la Svizzera tedesca, tra Bronte e Sciaffusa, proviamo un sentimento che rivela echi del passato: il fascino della bottega, il mestiere, la cura per ogni dettaglio. Nel negozio in via Nizzola, a Lugano, tra gli scaffali dove i colori delle tante scarpe si mischiano formando una piccola galleria di stili e mode, Giuseppe Orefice apre il suo Tablet per mostrarmi delle fotografie. Gentile, disponibile, racconta. Dice sorridendo, “sono un Orefice che fa il calzolaio e a volte capita che delle persone entrino per chiedere la riparazione di un orologio, di un gioiello …”. Un nome, una storia.
“Nasco vicino all’Etna, in un paesino molto bello, Bronte, famoso per i suoi sapori, per la natura e per il pistacchio, tanto apprezzato. Da ragazzo ho frequentato una scuola di agraria perché quello che avrei voluto fare era il falegname ebanista, costruire mobili. Venendo in Svizzera non ho potuto realizzare questo desiderio”. L’emigrazione, dunque. “I miei genitori sono emigrati nel ’64, a Sciaffusa, prima di noi figli rimasti al paese seguiti dai parenti: li raggiungevamo nel periodo delle vacanze. Tre fratelli, di cui solo uno nato là e tre sorelle”. La Bronte d’allora? “Un paese contadino dove gli asini camminavano per le vie e le galline facevano le uova sull’uscio di casa. E gatti, cani randagi. Oggi è una cittadina moderna, con tanti cambiamenti, pulita e ordinata. La zona è suggestiva, abbiamo i monti Iblei e l’Etna, due paesaggi diversi, uno lavico e l’altro di un verde intenso. Produzione di mandorle, olive, agrumi. Specialmente dalla parte di Randazzo, vigneti di pregio assoluto”. Mentre parliamo, entrano diversi clienti, affidano le loro scarpe al signor Giuseppe che risponde a ogni domanda, alle attese.
E’ un clima rilassato che notiamo anche fuori, quando nel fare due passi incontriamo alcune persone che salutano: “Ciao Giuseppe, come va?”. La vita, a Sciaffusa? “Ci sono arrivato nel ’75, a sedici anni, per iniziare a lavorare e sostenere la famiglia piuttosto numerosa. L’inizio non è stato facile, ma quando da bambini venivamo per le vacanze erano bei momenti; stavamo di fronte a una scuola elementare, a Lohn, anche quello un borgo di contadini. Trovavi il letame messo davanti alle porte, le mucche intorno e nugoli di mosche. I ragazzi del posto ci aspettavano, chiedevano ai nostri genitori quando saremmo arrivati; giocavamo a pallone, ci divertivamo, portavamo gioia”. Il lavoro? “Avevamo un po’ di difficoltà, inutile negarlo. Un giorno, papà mi dice che c’è un piastrellista in cerca di mano d’opera. Sono rimasto sei mesi, un lavoro duro, le mani che si spaccavano per il freddo.
Ho lasciato. Poi, un motivo non secondario: a me piacciono i materiali ‘caldi’, il legno, la pelle, non i metalli o il cemento. Le cose che si possono modellare”. Giuseppe, trova lavoro in una fabbrica di mattoni, conosce un gruppo di persone con cui sta bene, una buona compagnia. Ma l’idea è cambiare, vuole un lavoro dove mettere se stesso, la sua creatività. Ancora una volta è il padre a indicargli un possibile posto dove provare: è il laboratorio di un calzolaio. “Vado e resto affascinato, apprendo il mestiere. Oltre la tecnica, l’importanza del contatto con il cliente, le relazioni”. Un signore entra, è un po’ in ansia per una scarpa nera, elegante, chiede cosa si puo’ fare. Nasce la domanda: dimmi che scarpe porti e ti diro’ chi sei? “Ci sono tante sfumature da cogliere. A esempio, se osservo quelle che sta portando, per me lei è una persona che ricerca la semplicità nel vestire e che forse si siederebbe volentieri su un marciapiede, a leggere …”.
RIMINI, LUGANO.
Nelle esperienze di Giuseppe Orefice, c’è anche una tappa sulle sponde dell’Adriatico. Ma torniamo a Sciaffusa. “ Per migliorare, frequento la scuola di calzolaio e intanto vengo a sapere che a Winterthur, siamo a fine ’81, un ortopedico calzolaio lascia l’attività, cosi’ vado e mi presento. Questo, alla vigilia dei ventidue anni”. Come è andata? “Le prime settimane gli incassi non erano soddisfacenti. Con determinazione aumento il volume d’affari; un lavoro fine, di qualità. Per me, tutto sta nel desiderio di accontentare i clienti, trovare la soluzione per ogni tipo di scarpa e saper dire, con sincerità, che ci sono riparazioni a volte non fattibili o non convenienti”. Il nostro artigiano è intraprendente, acquisisce un altro negozio a Thalwil che dà in gestione e in seguito altri.
Nell’85 conosce la futura moglie, Caterina, si sposano il 25 aprile dell’anno successivo, “un matrimonio bello ancora adesso, con due figli, Riccardo e Sonia”. Potrebbe fermarsi qui, ma la spinta a perfezionarsi lo porta a lasciare quanto fatto, in vista di Rimini. “Ditte molto conosciute avevano fondato una scuola di stilista e modellista calzolaio. Decido di trasferirmi là insieme alla famiglia e per un anno seguo i corsi”. Una scuola valida? “Un ottimo livello d’insegnamento. Ho preferito formarmi come modellista, quello che traduce tecnicamente quanto lo stilista pensa e immagina: imparare a disegnare e guardare le scarpe come dei puzzle, tanti pezzi in uno”. L’abitudine ad aprire negozi, lui dice ‘brutta’, lo porta ad aprirne uno proprio a Rimini. “Tre anni di grande lavoro ma la fiscalità italiana, volendo fare le cose in ordine, è troppo pesante”. Torna in Svizzera e dopo il passaggio in un’azienda, ecco una nuova opportunità. L’occasione è il negozio a Lugano, dove stiamo parlando. La storia si riapre; bella clientela, impegno, dedizione. Pur non riparando gli orologi, lui tratta le scarpe dei suoi clienti con la precisione di un orefice. Di nome e di fatto.
Massimo Daviddi
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