C’è stato un tempo in cui gli auguri o semplicemente i saluti, in qualsiasi momento dell’anno, venivano inviati non con un cellulare ma scritti sulle cartoline.
di Massimo Daviddi – 1 febbraio 2020 L’Osservatore magazine
Le prime cartoline di cui ho un ricordo sono quelle sulla scrivania dell’Hotel Corallo, a Marina Romea. Là, ho trascorso le vacanze della mia vita, lasciando Milano che a poco a poco si spopolava, immersa nella calura che non dava tregua. Unica risorsa cittadina, l’Idroscalo. Gli zii Mariuccia e Roberto, albergatori bravissimi, mi ospitavano per un mese anche d’inverno, prima che iniziassi le elementari. Il clima nebbioso avvolgeva tutto in modo irreale, dando l’idea di un respiro ampio dove assenze e presenze potevano avvicendarsi. In quegli anni, nell’albergo degli zii, Dino Buzzati scriveva Un amore e poco lontano Michelangelo Antonioni girava tra il porto di Ravenna e le raffinerie, Deserto rosso, con una splendida Monica Vitti. Nella vacanza lunghissima dei tre mesi — a me sembrava un anno — scrivevo cartoline a mia madre, agli amici e mi sembrava bello coniugare la frase, ciao ti voglio bene, all’immagine che metteva in evidenza un particolare. Uno sfondo. La Romea, la pineta, la spiaggia con gli ombrelloni, un cane che in quel momento attraversava la strada, gli ospiti dell’albergo seduti dopo cena. Un fotografo aveva fatto questi servizi, li aveva mandati in stampa e così nascevano un insieme di figure a cui altri avrebbero dato significato. Chi era? Cosa pensava del suo lavoro? Molto prima della comunicazione online, la cartolina ha assunto la capacità di coniugare immediatezza e possibilità di approfondimento, realizzazione di un modo di intendere la realtà giocando sull’ironia, superando la realtà stessa. Come si sceglieva? Passavano diversi minuti, spesso delle discussioni su quale fosse meglio spedire, un modo per determinare l’originalità di un discorso, il desiderio di rivelare a chi l’avrebbe ricevuta un gusto personale. A me piacevano quelle in bianco e nero e davanti al pc ne tengo alcune di Milano, anni ’60.
Diversamente dalla lettera, la cartolina ha uno spazio limitato, si può dare un saluto o scrivere un pensiero stando dentro il quadrato a ridosso delle linee dove mettere nome e indirizzo. Eppure, senza nulla togliere alla lettera, la sorella minore spinge a una sintesi che non pregiudica il significato di ciò che è scritto, offrendo una cornice entro cui scrivere parole essenziali, qualcosa di sentito. Ed era oggetto di sperimentazione, perché quello spazio si prestava a variazioni di scrittura: verticale, obliqua, valicando la riga di delimitazione con un disegno o una freccia irriverente. Rischiando di restare alla posta. Una rivincita creativa del piccolo sul grande, un ipertesto dalle tante possibilità. La scelta di una cartolina era l’idea del mondo che abitavamo, il sentimento d’attesa tra spedizione e ricevimento, suscitando in lei o in lui uno stupore se nella fessura della buca lettere, finalmente si intravedeva qualcosa. La cartolina, segnando un legame, dava la possibilità di tenere vivi i nostri affetti quando eravamo distanti, soli, innamorati e lo faceva nello stile di chi, sulla banchina, saluta qualcuno che parte.
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