Di Redazione – Un Paese che oscilla tra responsabili, incoscienti, generosi e risparmiatori.
Oreste Pivetta – ArcipelagoMilano 12/07/2020
Capire come è e come saranno gli italiani i una impresa difficile, mille anime, mille atteggiamenti, mille contraddizioni. Per ritrovare un equilibrio ci vorranno tempi lunghi e la classe politica dovrà dare mille risposte. Ne sarà capace?
Silvio Berlusconi, sul finire della sua avventura governativa, a chi gli rinfacciava la pesantezza della crisi economica, rispondeva: “I ristoranti sono sempre pieni”. In epoca di riabilitazione del vecchio presidente, che davvero sta dimostrando lungimiranza, saggezza politica, senso di responsabilità in dosi ben più consistenti dei suoi alleati, si potrebbe riabilitare anche quella sua lapidaria sentenza, allora sbeffeggiata, nella quale peraltro si specchiava e si specchia uno dei tanti volti del popolo italiano, variabile a piacere, uno e trino, oppure uno e bino, oppure… gaio e infelice, piagnucoloso e ilare, esuberante e introverso, euforico e depresso, sprezzante, tronfio, borioso e poi magari umilmente reclinato ad elencare le proprie disgrazie e, soprattutto, la propria povertà.
La povertà è da sempre uno dei luoghi tipici dell’italiano medio-alto più che dell’italiano davvero povero, forse perché all’italiano povero si dà meno voce e meno ascolto. “Piangere il morto” si diceva a casa mia. “Quella lì piange sempre il morto”: ricordo l’uso del femminile (“quella”) come se il lamento fosse delegato in famiglia alla donna.
Il coronavirus ha consacrato la parità di genere. Il nuovo presidente di Confindustria non s’è mostrato da meno della casalinga di Voghera. Ricordo l’oste romano, con ristorante elegante in pieno centro, che, appunto, “piangeva il morto”, dimenticando gli incassi del mese prima, una parte di sicuro esentasse. Potrei ricordare la signora che gestisce lo stabilimento balneare di una località toscana, che intervistata ai primi tepori marzolini “piangeva” gli incassi mancati, come se qualcuno si sarebbe mai azzardato, con o senza covid, a metter piede in acqua a quelle temperature.
I dati ultimi dei tradizionali rapporti del Censis, come ampiamente riportato dai quotidiani, hanno raccontato che il coronavirus ha distribuito con la febbre e con altre nefaste conseguenze anche la paura, più per i soldi però che per la malattia: il 67,8 per cento degli italiani avrebbe infatti paura per la situazione economica familiare e la percentuale salirebbe al 72 tra i millennial e le donne, sfiorerebbe il 75 nel Sud, supererebbe il 76 tra gli imprenditori e arriverebbe all’82,6 per cento tra le persone con i redditi più bassi.
“Nella fase post-emergenza, la biopaura da contagio e la minaccia alla salute si saldano ai timori per le incerte prospettive economiche. La paura diventa così il principio regolatore emotivo di questa nuova stagione”. Poco più avanti si legge però che quasi il quaranta per cento degli italiani avrebbe incrementato il proprio risparmio e la percentuale salirebbe al cinquanta per cento tra i risparmiatori abituali. Insomma paura ma con il conto in banca che cresce. Non cresce per tutti, ovviamente, ma solo per chi malgrado la quarantena ha continuato a percepire il suo stipendio o la sua pensione: ventotto milioni di italiani, cioè il settanta per cento della forza lavoro. La clausura ha incrementato la loro parsimonia e i depositi bancari: spostamenti limitati, negozi chiusi, niente shopping, consumismo alle corde.
Anche il risparmio può essere un sintomo di doppiezza… Piangere il morto con il conto in banca. Senza dimenticare che certe percentuali in Italia, quando si tratta di quattrini, sono sempre a rischio perché non tengono conto di quei lavori oscuri e di quelle ricchezze sommerse o della quantità dell’evasione fiscale che valgono milioni e milioni. Tutti, in preda a numeri e statistiche, si sentono in grado di dire come stanno le cose, ma nessuno ci metterebbe la mano sul fuoco.
Ad esempio che cosa rivela e che cosa cela quel venti per cento in meno del fatturato delle aziende italiane nei primi sei mesi dell’anno di fronte alle immagini della incontenibile ansia da aperitivo o da vacanza dei nostri connazionali? Il chiaro e lo scuro si contrappongono. Forse dovremmo risvegliare Berlusconi: ristoranti pieni e distanziamento aggiustato alla meno peggio, code interminabili nei week end, le nostre valli (più che le nostre spiagge: in Liguria un ombrellone e due sedie a sdraio un migliaio di euro al mese) prese d’assalto, piazze e darsene teatri di irrefrenabili movide, feste e banchetti. Ma un’altra faccia non è difficile scorgere o anche solo immaginare…
Basterebbero gli operai napoletani della Whirlpool a rappresentare il declino industriale di un paese, che era stato capace nel dopoguerra di inventarsi di tutto, dall’elettrodomestico bianco al primitivo SUV, dalla moto da deserto (l’idea del memorabile scrambler Ducati) al primo pc portatile, ed ora sembra doversi affidare al buon cuore delle multinazionali, al turismo (dopo aver combinato il possibile per distruggere coste e valli, in preda al raptus del mattone ovunque), al nero incalcolabile e all’arte di arrangiarsi.
Siamo, malgrado la buona volontà del Censis e di altri istituti, malgrado le cifre dell’Istat, un paese indecifrabile, che una certezza almeno la offre: il declino diffuso della responsabilità, collettiva e individuale, virtù carsica che riemerge di tanto in tanto, salvo rapidamente affondare, oppure a isole, oppure a macchie di leopardo, qui e là come sulle doline del Carso.
La televisione italiana nella miseria della sua programmazione ha il pregio di ripresentarci, assai di frequente e in ripetizione, sequenze di storia patria, in particolare di storia tra il fascismo, la guerra, la Resistenza, la Liberazione. La rappresentazione dei nostri rivolgimenti e dei nostri capovolgimenti è plastica: gli entusiasti in camicia nera e la “zona grigia” dei silenziosi e degli opportunisti, che fanno la maggioranza, ai quali si contrappongono quei pochi che resistono, in galera o clandestini, e che gettano le basi della futura rivolta, le folle oceaniche che festeggiano l’annuncio della guerra e quelle che applaudono a Roma i militari americani che distribuiscono sigarette o a Milano i partigiani i corteo.
Un’altra occasione la fornì il terrorismo. Anche in questo caso una fotografia: la folla di piazza del Duomo ai funerali delle vittime della bomba fascista alla Banca dell’Agricoltura. Un paese che si ritrovava unito e che si ritroverà ancora unito di fronte alle minacce alla sua democrazia, minacce rosse o nere.
Le disgrazie ci mobilitano al pari delle vittorie ai campionati del mondo di calcio, esaltando il senso comunitario e solidaristico del tricolore. E’ accaduto per alluvioni e terremoti. E’ accaduto con la pandemia: mai viste tante bandiere alle finestre o incitamenti del tipo “andrà tutto bene” o tanta disponibilità al volontariato. Salvo la comparsa qui e là di coloro che se la ridono prevedendo gli affari della ricostruzione o di chi specula sulle mascherine e sui camici o di chi incita i propri agenti pubblicitari “perché il momento è buono”.
Solo che il coronavirus si sta dimostrando non di breve durata. Alla fine ci si stanca e se non difetta la paura per il portafoglio, quella per il morbo mi pare sia venuta meno. Così a una minoranza scrupolosa si contrappone una maggioranza rumorosa, inconsapevole e indifferente o addirittura arrogante, che si giustifica in nome della stanchezza o in virtù prima di tesi complottiste o “negazioniste”, poi di sentenze sulla fine del contagio espresse pure da titolati medici onnipresenti sui nostri teleschermi, una maggioranza incoraggiata da chi sbraita in politica contro le misure di emergenza e di contenimento, in nome di diritti violati, senza nulla da proporre. Il delirio di onnipotenza di certi governanti (da Boris Johnson a Trump a Bolsonaro), qualche volta punito, e di certi politicanti nostrani non può non contaminare il comune cittadino. La vocazione di alcuni, minoritaria, alla responsabilità non pareggia l’irresponsabilità dei più.
C’era una volta Giacomo Leopardi, che a Napoli contemplando il Vesuvio (lo “sterminator Vesevo”) e misurando i danni del colera, scrive La Ginestra. In epigrafe cita il Vangelo di Giovanni: “E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce”. Le tenebre contro, per il poeta, laico, la “luce” della ragione. Ironizza sull’Ottocento “secol superbo e sciocco” e sulle “magnifiche sorti e progressive”. Negli ultimi versi si rivolge alla ginestra lodandola: “… più saggia, ma tanto/ meno inferma dell’uom, quanto le frali/ tue stirpi non credesti/o dal fato o da te fatte immortali”, più saggia, ma tanto meno debole dell’uomo, perché non credi che la tua fragile specie sia stata resa immortale dal destino o da se stessa…
Oreste Pivetta
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