di Massimo Daviddi – Africa, è attraversare l’opera di Lèopold Sèdar Senghor? Di Mia Couto, scrittore mozambicano capace di fare – dice Luis Sepúlveda – “della storia del suo Paese, una grande metafora”? La lotta politica di Desmond Tutu e Nelson Mandela? Della voce di Miriam Makeba, nata nei sobborghi di Johannesburg? La giovane Africa verso il Vecchio continente, come scrive il sociologo Stephen Smith? Molti i percorsi possibili, ma poi contano le relazioni, la conoscenza personale. I progetti. Incontro nella casa di Maroggia, Lisa Merzaghi, trentenne infermiera diplomata, operatrice di Medici Senza Frontiere (Msf) formatasi a Losanna. Parla della sua esperienza con chiarezza, semplicità. Ascoltandola, si coglie la passione, la sua scelta di vita.
Da cosa iniziamo, Lisa?
Dalla prima missione in Camerun, nel 2014, al confine con la Repubblica Centro Africana a quei tempi in crisi per il conflitto tra cristiani e musulmani. Molti, venivano in Camerun per cercare rifugio. Ero arrivata di notte dopo un viaggio stancante tra scali a destra e sinistra.
Il giorno dopo?
Ecco la capitale, Yaoundè, un po’ tutta colline. Bella. Ho camminato: una città vitale, ma quello che mi colpiva erano gli sguardi per le strade. La prospettiva si era rovesciata, i bambini si avvicinavano chiamandomi in modi diversi. Mi sentivo al centro dell’attenzione.
Il progetto?
Sono ripartita quasi subito, nove ore di macchina per arrivare al campo profughi a Garoua-Boulai, tendenzialmente di cultura, etnia Peul. Circa trentamila persone. Un campo spartano, se paragonato ad altri che ho visto, casette fragili costruite con materiale di recupero.
Come ti sentivi?
A Msf, diciamo sempre che la prima missione o la ami o la odi. Se la ami, continui, se no finisce lì. Una prova. Ti schiacci contro il muro, oppure lo passi da una parte o dall’altra, cerchi un metodo e devi trovare una tua soluzione. Quando ripenso a quel momento lo ricordo come uno dei più importanti della mia esperienza. Anche divertente nonostante il contesto.
I compiti?
Partivo infermiera per la supervisione. D’altra parte, alla prima esperienza sono stati gli altri a darmi spunti e suggerimenti. Un continuo scambio. Mi ritrovavo, giovane, in un ruolo pensato per lo staff nazionale composto da medici e infermieri. Da tutti loro ho imparato molto.
La lingua?
C’erano degli interpreti, rifugiati, che aiutavano per la lingua parlata nel campo, il Fulfulde. Ricordo con grande gioia lo staff; alcune persone sono diventate espatriate per Msf, altre le sento ancora. Con messaggi, Facebook, è facile trovarsi. Per tutto quanto visto, a chi fa la prima missione, dico: ascolta, impara. Se puoi, divertiti.
Cosa pensi di avere appreso, in quei mesi?
A livello medico, infermieristico, si ha veramente poco, pensando alle nostre strutture. Impari a fare il tuo lavoro con meno, al meglio; impari a essere più creativo, ad avere una sensibilità particolare senza gli apparecchi che abbiamo qui. Tu sei tu, con lo stetoscopio, con l’apparecchio della pressione e basta. E devi fare una diagnosi.
Atteggiamento, alla base dell’essere medico.
Sì, condivido. A Losanna, nell’ospedale dove sono stata per tanti anni, i medici principali sono persone che hanno lavorato e lavorano in campo umanitario. Agli assistenti, a noi infermiere, ogni tanto dicono: “Fai una diagnosi senza utilizzare le macchine”. Spingono gli altri medici a fare con la testa, non solo con la tecnica.
Parli del divertirsi anche in situazioni difficili.
Se penso allo staff camerunense, eravamo un po’ teste matte; ci piaceva mangiare insieme, fare qualche festa. Si cerca di trovare un equilibrio dopo giornate impegnative.
In tre mesi, vedi la vita.
» un condensato. Si mischia tutto e c’è anche un po’ di caos. Non lontano, sparavano. Ci sono regole da seguire: ti rendi conto di separarti dalla vita precedente. Quando torno, riprendo le abitudini e le perdo quando parto. Una seconda vita, dove sento di essere comunque me stessa.
Un forte cambiamento.
Bisogna adattarsi in fretta: è utile. Non consiglierei a nessuno di operare in campo umanitario se non si è capaci di adattarsi.
Dopo il Camerun?
La Sierra Leone, inizio 2015, epidemia dell’Ebola. Una realtà diversa; dal campo profughi di cui parlavo, a Freetown e da sei espatriati a sessanta. Contesto difficile perchè mancava il contatto, vestivi con la protezione. E non puoi fare più di tanto. Come persona medicale dai da mangiare, da bere, i fluidi e intorno a te un sessanta per cento muore. Una vera emergenza internazionale: uffici, altre Ong.
Terminato il periodo?
Parto per il Ciad. Un ospedale del ministero dove noi avevamo il reparto di pediatria. Cinque mesi, zona desertica, fino a 50 gradi; poco cibo, rapporti non semplici, una mortalità infantile elevata.
Come leggi il rapporto con la morte?
Nella nostra società è legata al diventare anziano, le altre morti sono difficilmente accettabili: ospedali di alto livello, arrivare a cent’anni… In Africa, il dolore di una madre, di un padre, per la perdita di un figlio è egualmente forte, ma la morte che incontravo era anche un dire: è così. Si accompagna la persona con momenti di festa, si pensa sia andata verso il meglio.
E i conflitti, tra voi?
Capitano, come in tutti i gruppi. In Tanzania, lo staff era molto eterogeneo. La cosa importante è parlarne e che il lavoro funzioni, lasciando da parte le questioni personali.
Ricordi?
Ne ho parecchi. In Ciad, un bambino che si chiama Issa è arrivato da noi con ustioni sul trenta per cento del corpo. Cercava di salvare mamma e sorellina dall’incendio di casa. Tutti si sono affezionati a lui e ogni giorno il papà mi prendeva come scusa. Diceva: se non mangi, chiamo la Nassara, la bianca, che ti sgrida… allora mangiava.
E poi?
L’ultimo giorno mi ha regalato un mango, qualcosa di importante. Tranne Issa, aveva perso tutto.
Lisa, fin da ragazza sente la passione per il mondo sanitario. Poi, crescendo, un pensiero alternativo la porta a Gino Strada. «Alle medie ero di sinistra: Emergency, Gino Strada, il sostegno alle sue idee. Col tempo, questa consapevolezza si è rafforzata. Andare a studiare a Losanna – mia madre insisteva perchè uscissi dal Ticino – è stata un’altra apertura». Un aneddoto? «L’ultima volta, stavo parlando al telefono con lei. Le dico che nel pollaio finalmente avevamo qualche gallina. Chiede: le cucinate? Rispondo: e poi, chi fa le uova?». Non abbiamo detto delle due volte di Lisa in Congo e dell’incontro con il gallo Aldo, un po’ troppo viziato. Prima di lasciare la Tanzania, conosce la mamma adottiva di una bambina abbandonata, a cui tutto lo staff aveva prestato cura e attenzione. Gloria, il nome. Karen Blixen, ha scritto ‘La mia Africa’. Questa credo sia quella di Lisa.
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