Di Redazione – Riflessioni in questa seconda fase della pandemia.
Enrico Dal Buono – Lk 22/10/2020
L’ultimo Dpcm di Conte scarica gli oneri su regioni e sindaci, i quali a loro volta li passano ai cittadini e poi i cittadini condividono lo stesso atteggiamento: cambiare spesso opinione, essere riconosciuti come perfetti, non sopportare la delusione altrui ed essere posseduti dall’ossessione per il tasto like.
Ne “Il grande Lebowski” l’omonimo miliardario faceva all’altro Lebowski: «Essere pronti a fare ciò che è più giusto. A qualunque costo. Non è questo che fa di un uomo un uomo?» Il Drugo dava un tiro alla canna e rispondeva: «Sì, quello e un paio di testicoli». Correvano i tempi della guerra in Iraq di Bush padre: oggi pensiamo che la seconda risposta sia sicuramente sbagliata (i testicoli), ma a quanto pare lo è anche la prima (essere pronti a fare ciò che è giusto a qualunque costo).
Un’intera generazione che non si prende mai una responsabilità. Il caso più attuale è l’ultimo Dpcm di Giuseppe Conte: di fatto, la responsabilità, la scarica su regioni e sindaci. Che, a loro volta, la trattano da patata bollente e la passano al vicino. Cioè ai cittadini, naturalmente. Ma i cittadini condividono lo stesso atteggiamento.
La classe politica è l’espressione suprema ed eletta di quest’epoca flaccida. Prima che era digitale, questa è l’era paracula. L’equanimità come nevrosi. La Democrazia Cristiana è morta e si è reincarnata nei nostri corpi, la metempsicosi della Balena Bianca.
Vogliamo piacere a tutti. Siamo posseduti dall’ossessione del tasto like. Ambiamo al gradimento ecumenico. Invece la responsabilità comporta un effetto collaterale: scontentare qualcuno. Decidere significa abortire futuri possibili, arginare il caso, significa privare chi condizioniamo con le nostre azioni del potere liberatorio della bestemmia. Così, un certo evento non sarà più il volere di Dio, o del destino, o del fato: sarà il nostro volere. Decidere significa assumere su di sé la possibilità della colpa.
Non è solo questione di pandemia e massimi problemi. Scendendo a livello pane e salame, nessuno vuole più scegliere il ristorante. In un gruppo di amici s’innesca il rimpiattino dei “fa’ tu”, “a me va bene qualsiasi cosa”, quando in realtà tutti hanno preferenze.
Vogliamo essere riconosciuti come perfetti, non sopportiamo la delusione altrui. La pasta è scotta. Bastano le loro facce. L’accusa strisciante di esserci dimostrati fallibili. Non tolleriamo di essere giudicati, pretendiamo di essere soltanto celebrati. Facciamo sempre meno figli.
Certo la crisi, certo il tempo, ma sotto sotto ci rifiutiamo di scegliere: lasciamo che andropausa e menopausa scelgano per noi. Sempre meglio che la responsabilità. Siamo una generazione di gattari. Cani e felini da adulti non ci rinfacceranno le nostre scelte sbagliate.
Non decidiamo niente ma abbiamo opinioni su tutto. Le opinioni sono il surrogato della responsabilità al tempo dei social network. Imitiamo convinzioni, scimmiottiamo decisioni, fingiamo scelte. È come se esprimere un’opinione dietro l’altra ci affrancasse dalla responsabilità di risoluzioni concrete.
Replichiamo le opinioni della nostra specifica bolla, della nostra rispettiva nicchia. Siamo casse di risonanza del pensiero comune. Non ci prendiamo il rischio di essere individui. Diventiamo nessuno perché non vogliamo scontentare qualcuno. Siamo liquidi come l’acqua, di più, come Giuseppe Conte.
Secondo la dialettica servo-signore di Hegel, il servo è colui che ha più paura di morire per mano dell’altro, e quindi si sottomette. Noi ci sottomettiamo costantemente al pensiero di quella che consideriamo la nostra maggioranza di riferimento, la nostra signora, perché per noi contrariarla è morire.
Secondo Hegel il padrone diventa poi dipendente dal servo: senza il suo lavoro, sarebbe lui a morire. E così il pensiero dominante, di cui noi elemosiniamo l’approvazione, si estinguerebbe se noi non lo riecheggiassimo all’infinito.
Cambiare spesso opinione è un’altra forma di irresponsabilità. Blateriamo, incassiamo il plauso, e tanto basta. Se cambia l’umore della platea noi cambiamo monologo. E quando dalla finzione digitale ci inoltriamo nella realtà effettiva scopriamo che lì la scelta implica il sacrificio. E ci sembra paradossale e insopportabile che il centro del mondo – ciò che ognuno di noi s’illude di essere – debba sacrificarsi per la periferia.
Cioè ci sembra paradossale e insopportabile dovere restare coerenti con i nostri simulacri di decisione. In questi mesi quanti negazionisti indefessi, sentendo qualcuno starnutire in metro, si sono riscoperti ipocondriaci? E quanti mascherinisti ultraortodossi si sono abbassati la mascherina quando non avrebbero dovuto, nonostante la loro rigidità sui social network?
Prima del covid19 la dinamica era già simile: sovranisti che fregavano lo Stato sovrano e immigrazionisti che insultavano gli immigrati vendi-rose. L’incapacità di prendersi la responsabilità delle nostre scelte non può che essere la madre dell’ipocrisia.
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