La giornata della memoria che ci porta all’Olocausto e per riflesso alle tragedie che prima e dopo di questo hanno attraversato l’umanità, apre al tema del rapporto tra memoria collettiva e soggettiva. Una memoria con la m minuscola che scrive le sue impressioni sul lato b della storia universale, quella che abbiamo appreso da testi, saggi, ricerche; il passaggio del tempo e degli avvenimenti piu’ conosciuti fino alla dimensione quotidiana della vita che riguarda ogni persona e che si forma senza interruzione. Partendo da un ‘fatto sociale, totale’, elaboriamo quanto avvenuto, un significato condiviso che sentiamo unire la storia, noi e gli altri, accompagnato da una produzione di senso non sempre trasmissibile, che interpella, chiama. Per questo, ricordare è ascoltarsi in un colloquio che a poco a poco svela sentimenti difficilmente esprimibili; i racconti , le lettere dei soldati al fronte e i diari scritti durante malattie ed esili, fino ai muri che conservano in modo duraturo parole di chi, migrando, cerca di dire qualcosa di suo, anche solo una frase, una data, il nome.
Sono i vestiti, le poche cose portate con sé che durante il passaggio nei sentieri da un confine all’altro le persone lasciano, reperti per un mondo che non accoglie e che invece separa, giudica. Sono le testimonianze di chi ha vissuto la durezza della vita nei lavori piu’ umili, le mondine immerse per ore nell’acqua, le loro canzoni di rivolta e quelle che donne e uomini cantavano per denunciare lo sfruttamento del lavoro nelle fabbriche e che sono entrate nella storiografia alternativa. Essere tesi verso quanto le tragedie del secolo scorso (e le attuali) hanno comportato trascinando uomini e donne nel segno del dolore, è riconoscere la storia di ogni persona, documentarne il valore, ritrovare un nesso tra una comunicazione a senso unico, vorticosa, immediata e la nostra capacità critica che è cogliere i dettagli, quanto sta al margine di ogni discorso e certezza. Del resto, la domanda che dovremmo porci alla vigilia della giornata della memoria è cosa sarebbe stato della storia, di quella ufficiale appresa sui libri di testo e dalla storiografia accreditata, se questa fosse stata scritta da chi non ha potuto farlo. I nativi d’America, le donne, gli africani delle colonie, l’avrebbero scritta come noi? Si sono sentiti rappresentati da chi, in verità, ha ragionato secondo schemi legati al profitto, all’idea di un capitalismo motore del mondo, necessariamente?
La memoria entra nel presente, lo ravviva quando è possibile saldare al processo storico collettivo una narrazione che interpreta quanto avviene e che sta nella mente di ogni persona, nel suo essere portatore di senso e sentimento. La scomparsa delle grandi narrazioni di cui ci ha parlato Jean – Francois Lyotard, è l’idea che alla fine della modernità – se possiamo individuare simbolicamente una frontiera con l’epoca postmoderna – restano i piccoli, fragili, tenaci racconti su fogli di carta: i diari e gli appunti di viaggio, cosi’ come le narrazioni che saldano sul filo di un discorso in – finito generazioni diverse e diverse attese, trasmettendo una memoria viva. Questa, è cognizione di noi stessi nella relazione io – tu, è reminiscenza, un passato colto nel suo essere stato e nel contempo ancora qui; la presenza di quanto non è piu’, eppure sentiamo vicino. E’, soprattutto, interpretazione e riconoscimento partendo da semplici domande. Cosa vedo, ricordo, sento? Credo che Anna Frank ci pensasse mentre scriveva il suo bellissimo diario pieno di pensieri, timori e perfino cenni di allegria. Un sconvolgente desiderio di vivere che ci parla sempre.
Massimo Daviddi –
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