Di Giuseppe Marazzini –
Nella prima settimana di maggio dieci operai hanno perduto la vita svolgendo il proprio lavoro in fabbrica, nei cantieri e nei campi.
L’alto numero di vittime in una sola settimana ha suscitato molta emozione nell’opinione pubblica, in modo particolare per la morte di una giovane mamma, Luana D’Orazio di 22 anni, straziata da un orditoio mentre lavorava presso un’azienda tessile in provincia di Prato. Molti opinionisti, dirigenti sindacali ed imprenditori si sono cimentati sul tema della sicurezza sul lavoro. Si sono chiesti perché, nonostante leggi e norme, non si riesca a spezzare la lunga catena di morti sul lavoro. Alla fine, dopo un po’ di lacrime di coccodrillo, si ripiega sul solito e retorico appello, più “cultura e formazione per la sicurezza”.
Bisognerebbe domandarsi, invece, perché Confindustria, Governi, Partiti dell’arco costituzionale ed i Sindacati più importanti, dopo il 1980, hanno emarginato e ridotto al silenzio le esperienze operaie più avanzate in materia di tutela della salute e dell’ambiente in fabbrica e fuori dalla fabbrica.
Negli anni ‘70 i Consigli di Fabbrica con apposite commissioni di lavoro controllavano il ciclo di lavorazione: la nocività delle sostanze in gioco, la sicurezza delle macchine e delle apparecchiature, i carichi di lavoro, lo stress lavorativo, i fumi e le polveri, il microclima, il rumore, la luminosità, gli spazi, le condizioni di salute dei lavoratori con indagini sanitarie di massa, la bonifica degli ambienti e la messa in sicurezza degli impianti.
Tutte le azioni miranti alla tutela e salvaguardia della salute dei lavoratori erano incentrate sulla Prevenzione. Lo strumento giuridico che permetteva l’agire dei Consigli di Fabbrica sulle questioni di sicurezza sul lavoro era l’art.9 dello Statuto dei Lavoratori, articolo tutt’ora vigente ma rottamato da una legislazione gruviera (dalla legge 626/94 al DLgs 81 del 2008).
E il tema è proprio questo: nell’era della super fibra, in cui l’impresa controlla a distanza la velocità dell’operaio addetto alla selezione ed impacchettamento della merce, chi controlla il ciclo di lavorazione, le sue nocività e le sue ricadute mortali? Viene da dire nessuno e c’è da mettersi le mani nei capelli se pensiamo agli organi di controllo, insufficienti e disorganizzati.
Come dicevo è dal 1980 che la cultura della Prevenzione è andata sempre più scomparendo, tant’è che oggi è pari a zero o quasi. Non è più un elemento centrale nella contrattazione aziendale e ancor meno nella contrattazione sociale. In generale si ritiene che le spese per prevenire danni alla salute dei propri dipendenti o dei propri cittadini siano superflue.
La resistenza alla Prevenzione da parte degli imprenditori la si comprende molto bene nelle aule dei tribunali dove si svolgono o si sono svolti i processi sugli avvenimenti che hanno causato morte operaia e danni ambientali, processi dove la maggior parte degli imputati se la sono cavata con la prescrizione o perché “il fatto non costituisce reato” o “non sussiste”. Gli argomenti di difesa delle imprese nel terzo millennio non si distanziano molto dagli argomenti utilizzati dagli imprenditori nella seconda rivoluzione industriale.
Riporto un fatto che ho scoperto durante una mia ricerca per la mia tesi di laurea (mai data) di indirizzo storico-politico che riguarda la morte di una operaia tredicenne presso la Cantoni di Legnanello nel 1912.
Il testo che segue è ripreso dal libro di Roberto Romano Fabbriche, Operai, Ingegneri – Studi di storia del lavoro in Italia tra ‘800 e ‘900.
“Nel 1912 la ragazza, mentre si recava a bere al rubinetto dell’acqua potabile posto ad una parete della sala di tessitura, venne a contatto con la cinghia verticale di trasmissione di un telaio della prima fila prospiciente la parete; trascinata e sollevata dalla cinghia stessa fino all’albero di trasmissione principale, venne, nella rotazione di questo, sbattuta contro il soffitto a più riprese, trovando naturalmente la morte”.
Secondo la perizia “le cui conclusioni furono poi accolte dal tribunale, la distanza di un metro e quaranta tra il rubinetto e i telai era più che sufficiente ad evitare disgrazie e comunque le cinghie di comando dei telai potevano “essere normalmente considerate come elementi pericolosi”. L’infortunio era invece probabilmente da attribuirsi alla “civetteria delle operaie che insistevano a portare grembiuli e nastri svolazzanti”, che potevano impigliarsi nelle cinghie. Presentando tale perizia il bollettino dell’Associazione (Associazione prevenzione infortuni costituita da un gruppo di industriali) sosteneva perentoriamente:
“Non si può logicamente ammettere che la tutela delle persone debba essere intesa come una specie di ossessione per tutto ciò che è parte in movimento di una macchina e conseguentemente si voglia ritrovare responsabilità di un infortunio per parte dei preposti al lavoro tutte le volte che un operaio, incoscientemente o no, senza nessuna necessità di lavoro lo obblighi ad essere in costante prossimità di tali parti in moto, resta colpito da infortunio per la propria imprudenza.”
È una storia che si chiude amaramente come purtroppo si sono chiuse amaramente molte altre storie di morte operaia accadute in tempi più recenti, ma ciò non ci deve far cadere nel fatalismo, anzi ci deve dare la forza di reagire per contrastare modelli di sviluppo economico che includono già a priori la contabilizzazione dei morti sul lavoro come se fossimo in guerra.
Diario Legnanese invita le proprie lettrici e lettori ad inviarci storie e documenti inerenti ad infortuni gravi e mortali di loro conoscenza, noi li pubblicheremo. Da parte nostra ci impegniamo a raccontare ogni mese storie e fatti accaduti tempo fa ma utili a comprendere come il nostro sistema industriale si è sviluppato lasciando sul campo migliaia e migliaia di operaie e operai feriti e morti.
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