Di Redazione –
PGT, continua la querelle.
Mille firme per salvare la ex Manifattura di Legnano dalla voracità cementizia e la piccata risposta del nuovo proprietario, la vivace contestazione del padrone di una parte della ex Tosi che si sente penalizzato dal nuovo PGT e le modifiche richieste dal Commissario liquidatore della restante parte della ex Tosi (più residenziale). Si farà in compensazione, per tenere buoni gli amici commercianti, quasi tutti contrari alle piste ciclabili, qualche parcheggio sotterraneo e qualche piazzetta, cose che non guastano mai. Questi gli argomenti messi in evidenza dalla stampa locale dall’inizio dell’anno.
Il mantra ormai è che Legnano sta per diventare, secondo i nostri amministratori, una città molto attraente e green, cosa che per la verità, lo dicevano anche altri…
Per attirare l’opinione pubblica bisogna pubblicizzare bene il proprio prodotto, ed ecco allora “IL MODELLO DI RICETTA URBANISTICA” da seguire: si miscela un po’ di essenze anallergiche con ciò che rimane (ben poco) di una vecchia fabbrica, ed ecco il “bioparco archeologico”. E visto che sarà anche archeologico, chissà come chiameranno l’area dove sorgeranno i nuovi palazzi adiacenti al “bioparco”… Bio Cement Park? C’è da rimanere molto perplessi.
Poi avanti con il terziario commerciale che affascina molto, ma impoverisce la qualità dei luoghi e la qualità di vita di molti residenti.
Le osservazioni convinceranno l’amministrazione a cambiare indirizzo? Le sole osservazioni non sono mai riuscite a far cambiare le linee di fondo, questo ci dicono le esperienze precedenti.
Allora cosa fare? Secondo noi, oltre al coinvolgimento diretto dei cittadini nel processo elaborativo e decisionale (un osservatorio urbanistico interdisciplinare), bisogna fare memoria, bisogna rivedere in senso critico come l’urbanistica ha condizionato Legnano negli ultimi 70 anni. Solo in questo modo sarà possibile liberarsi in maniera concreta degli stereotipi su una città “accogliente, attraente e creativa”, concetti piuttosto vacui e evanescenti e individuare percorsi identitari più coerenti alla storia della città. Noi cominciamo col divulgare alcune “memorie” utili per un confronto propositivo.
Diario Legnanese
La Prealpina 03 03 2004_prof Acuto
Francesco Chiodelli – CEMENTO ARMATO Capitolo quarto – Città corrotte (pagg. 103-104-105-106)
Pillole di urbanistica
Tutti sanno più o meno che cosa si intenda per urbanistica: qualcosa che «si interessa dei luoghi in cui gli uomini abitano, circolano, lavorano e così via; “qualcosa”, insomma, che si occupa dello spazio costruito e costruibile». L’impressione è, però, che tale conoscenza sia sempre piuttosto superficiale. Non c’è da stupirsene. Quello dell’urbanistica è infatti un campo ampio e dai confini piuttosto sfilacciati. Si aggiunga il fatto che è punteggiato di procedure cervellotiche, strumenti tecnici astrusi, argomentazioni lambiccate e termini bizantini, e si capisce perché, a meno che si sia costretti a relazionarsi con esso per qualche sfortunato accidente, la maggior parte della gente se ne tenga alla larga. Per comprendere perché sia un terreno tormentato dal malaffare, tuttavia, non si può fare a meno di addentrarsi al suo interno, almeno un poco.
Urbanistica è un termine polisemico, al quale, in linea generale, possono essere attribuiti tre significati principali. Primo, quello di una «disciplina scientifica», che si occupa dello studio della città e del territorio per proporre forme di intervento per modificarne alcuni aspetti. L’urbanistica come disciplina scientifica è quella che si studia in una miriade di corsi di pianificazione urbanistica e territoriale in moltissime università, in Italia e nel mondo. Ma con urbanistica si intende anche una professione, quella praticata da quegli esperti che, pur con provenienze diverse (architetti, ingegneri e pianificatori), concorrono tutti a concepire piani e progetti per intervenire sulla città o su alcune sue porzioni. Infine, con urbanistica si intende anche un’attività istituzionale, in capo soprattutto alle amministrazioni pubbliche locali che, spesso con la consulenza di tecnici, promuovono strumenti normativi (soprattutto piani: piani regolatori, piani della mobilità, piani delle opere pubbliche, piani particolareggiati, piani strategici) per governare l’uso del suolo e degli edifici, oltre che per fornire infrastrutture e servizi.
Indipendentemente da questi diversi significati, sempre il concetto di urbanistica è permeato da un grande inganno, nutrito proprio dalla sovrapposizione dei tre campi a cui abbiamo appena fatto riferimento (quello della riflessione accademica, quello dell’attività professionale e quello dell’azione pubblica). L’inganno è che l’urbanistica sia una sorta di corrispettivo della medicina (o meglio, di una visione semplicistica di quest’ultima): di fronte a una patologia si propone senza incertezza una cura che, una volta completata, rimuove il malanno. L’unica differenza rispetto alla medicina sarebbe che la patologia è rappresentata da un problema territoriale (per esempio, il degrado di un quartiere periferico) e la cura è rappresentata da un intervento pubblico a matrice spaziale (per esempio, un programma di riqualificazione urbana). Se quest’erroneo ideale di ineluttabilità è piuttosto radicato in tutta quell’amplissima quota di popolazione che, con l’urbanistica, non ha quotidianamente a che fare per motivi di lavoro, bisogna ammettere che esso è talvolta alimentato anche da chi l’urbanistica la studia e la pratica abitualmente – probabilmente, potrebbe sostenere malignamente qualcuno, per ammantarsi di un’aura di infallibilità che contribuisce a dare credibilità alle cose che si dicono e si fanno.
Eppure, la realtà è ben diversa. L’urbanistica è un campo di sapere che per quanto abbastanza robusto, non fornisce alcuna certezza. E percorso costantemente da dubbi, errori, lacune, ipotesi, domande senza risposta, riposte parziali e contingenti. Per di più, quando si avventura nel terreno delle proposte (per esempio, suggerendo un certo intervento in un’area oppure disegnando un piano regolatore), pur partendo da un’accurata analisi della realtà, indica una direzione che è sempre dettata anche (e, spesso, soprattutto) da scelte di valore: valori etici, politici, economici e finanche religiosi. Chiunque abiti in una città in decennale fermento urbanistico come Milano ha solo l’imbarazzo della scelta fra gli esempi possibili. Ormai non si contano gli interventi di «riqualificazione urbana» in un qualche quartiere presuntamente degradato dal passato industriale, non perché quella sia l’unica «cura urbanistica» possibile, ma perché si è animati da specifiche scelte di valore. Tra queste vi è per esempio la convinzione che la città debba assumere un’immagine innovativa, imprenditoriale e creativa costruendo loft, spazi di coworking e grattacieli al posto delle vecchie fabbriche; che si debbano attrarre certe popolazioni specifiche (artisti, turisti, giovani professionisti e uomini d’affari); che sia giusto investire denaro pubblico nell’arredo urbano del centro piuttosto che nella manutenzione delle case popolari di proprietà del Comune. Il punto, sia chiaro, non è se queste decisioni siano condivisibili o meno. La questione cruciale è che mai esse sono le uniche scelte possibili, né tantomeno sono dettate da certezze scientifiche.
Dunque, l’urbanistica non offre verità inappellabili e le sue decisioni trasudano valori di diverso tipo. Proprio per questo, quando l’urbanistica diviene una funzione pubblica nelle mani di un’amministrazione comunale, si tramuta immediatamente in un’attività politica a tutto tondo. Le scelte urbanistiche di una municipalità sono, come molte altre, guidate da una logica squisitamente politica (come rispondere alle esigenze e alle preferenze di un certo gruppo sociale), con la peculiarità di avere a che fare con il suolo e di attuarsi tramite strumenti specifici (per esempio, un piano regolatore). Come argomenta uno dei più lucidi e schietti urbanisti italiani, Luigi Mazza: «Si può dire che l’urbanistica abbia la propria “grammatica” ossia un gruppo di regole tecniche e scientifiche, ma non ha una propria “logica”; la logica dell’urbanistica è delineata dalle decisioni politiche» …
Simone Tosi e Tommaso Vitale – PICCOLO NORD scelte pubbliche e interessi privati nell’Alto Milanese. Capitolo 4.2.1 (pagg. 96-97-98).
4.2.1 L’urbanistica contrattata: soggetti, strumenti e metodi
Il fenomeno dell’urbanistica contrattata o, più semplicemente, “per accordi” è stato implementato, nel territorio alto milanese, attraverso una serie di strumenti: tra questi vi sono interventi in project financing e programmi complessi, in particolare Programmi Integrati d’Intervento, su cui ci concentriamo specificamente in questo capitolo. I Programmi Integrati di Intervento (PII), istituiti con la legge 179/1992 ma rimasti inattuati per diversi anni (in Lombardia essi verranno regolati soltanto nel 1999), si caratterizzano per essere finalizzati a “riqualificare il tessuto urbanistico, edilizio e ambientale del proprio territorio” (art. 1), con particolare riferimento alla riqualificazione di aree produttive dismesse in situazione di degrado sociale o ambientale, attraverso il concorso “di più operatori e risorse finanziarie pubbliche e private” (art. 3)69.
Istituzionalizzando l’entrata del privato nei processi di rigenerazione urbana, strumenti come i PII anticipano le trasformazioni avvenute nei processi di pianificazione che saranno successivamente sancite a livello regionale con la legge 12/2005 e che porteranno ad escludere progressivamente la regia pubblica e politica a favore di una visione della pianificazione come accordo tra pubblico e privato. Come puntualizzato da Le Galès, gli strumenti dell’azione pubblica non sono politicamente “neutri”, né sono problematici “unicamente in funzione degli obiettivi da raggiungere” (Lascoumes, Le Galès, 2009, p.18). Dietro lo scudo della necessità dell’intervento per la risoluzione di un determinato problema pubblico (come quello del cosiddetto “degrado”, nell’area Cantoni, che prenderemo in esame più avanti) si cela il rischio, ampiamente sottolineato in letteratura, di dissimulare le dinamiche di potere e il gioco degli interessi sociali legati all’uso di determinati strumenti contrattuali (Ibid.). Per comprendere se e come sia sensato parlare di tale rischio anche sul territorio in esame ci chiederemo, in primis, quali sono i soggetti protagonisti della negoziazione e successivamente, quali sono i metodi con cui essa viene portata a dibattito pubblico nelle sedi istituzionali.
Per quanto riguarda i soggetti privati che contrattano con il pubblico in queste operazioni è importante sottolineare che, nella gran parte dei casi, non si tratta dei vecchi proprietari industriali, originariamente in possesso delle aree oggetto della riqualificazione, ma piuttosto di una nuova tipologia di “city builder” costituita da un insieme composito di soggetti: come nel caso delle grandi metropoli, tra cui la vicina Milano (Memo, 2008), nell’Alto milanese troviamo holding finanziarie e immobiliari esterne al territorio, italiane e straniere; ma anche i cosiddetti mega-developer, operatori leader nel settore urbanistico-immobiliare, ben collegati a saperi esperti del ramo progettuale-gestionale; compagnie della grande distribuzione commerciale o multinazionali, per citarne alcuni. Questi nuovi attori acquisiscono le aree dismesse, spesso a prezzi irrisori rispetto al loro valore commerciale (e in particolar modo rispetto al valore che sarà acquisito in seguito alla conversione ad uso residenziale) e propongono i propri progetti di riconversione agli amministratori. E’ la rendita finanziaria e immobiliare, quindi, più che quella fondiaria, il meccanismo che fa da sfondo a queste contrattazioni e determina gli indirizzi della trasformazione delle città.
Nell’analizzare il ruolo di questi soggetti nelle trasformazioni non si può ignorare che, senza un vigoroso intervento privato, molte operazioni, specialmente riconversioni industriali di grande scala, non sarebbero neppure partite (Pichierri, 2001). Ciò è vero soprattutto per il fatto che, con l’introduzione del Patto di stabilità e con le riduzioni dei trasferimenti centrali, i comuni non sono nelle condizioni di assumere il peso finanziario di queste operazioni al posto dei privati, come invece è avvenuto in passato (anche a Legnano). È però la modalità di contrattazione tra i diversi attori che ci dice qualcosa sul gioco degli interessi in campo: le proposte vengono avanzate alle amministrazioni, per conto dei soggetti sopra elencati, attraverso veri e propri “promoter” dello sviluppo, come illustratoci da un membro della V Commissione Territorio della regione Lombardia:
Nel Legnanese ci sono poteri forti, fortissimi, che non intervengono in prima persona. Ci sono dei promoter che agiscono al posto loro […] Le proprietà non vogliono aver problemi, perdere tempo con i sindaci […] danno delle opzioni e gli dicono: “Io ti do quest’opzione per due anni, tu mi devi portarè dei risultati che io valuto”. E questi si mettono fare proposte […], fanno solo quel lavoro lì. La proprietà dà ai promoter delle opzioni e questi contrattano con sindaci e giunte per ottenere il massimo sfruttamento del terreno. Come operano? non vanno là con un progettino… vanno a prendere i grandi nomi della progettazione. Vanno dalle “archistar”. E chi hanno preso a Legnano? Renzo Piano […] Tutto funziona così. (Consigliere Regionale, membro della commissione Infrastrutture, Urbanistica, Comunicazione, Territorio della regione Lombardia).
La ricerca delle grandi firme della progettazione, come nel caso dell’area ex Cantoni (vedi par 4.4) non rendono solo più autorevole il progetto, ma rimandano anche ai più ampi processi di personificazione e mediatizzazione della politica, a cui sono imputabili la riduzione del potere decisionale delle arene politiche e la diffusione di governi “monocratici”, fortemente centrati sulle figure degli esecutivi e dei loro vertici (sindaci, presidenti di regione ecc.) (Musella, 2009).
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