Il fascismo ha dato i galloni e una presunta dignità a una categoria sociale, la piccola borghesia, votata alla semplificazione dialettica e al bisogno di fare bella figura il giorno della prima comunione dei propri figli. A guardar bene, le cose non sono cambiate
di Fulvio Abbate
“I love (e qui c’è da immaginare un bel cuore rosso) Duce”. Idealmente, ma forse neppure tanto, questa variante d’adesivo politico-sentimentale, c’è modo di vederlo figurare su ogni lunotto d’utilitaria della piccola borghesia nazionale, tra la pecetta, metti, del Parco Nazionale d’Abruzzo con l’amico orso e il bruco di peluche della squadra sempre del cuore, poco importa se giallorosso, biancoazzurro o bianconero. E questo perché la piccola borghesia italiana, cioè la quasi totalità della popolazione residente nello Stivale, ancora adesso custodisce nell’arcipelago più intimo di se stessa il ricordo del fascismo, s’intende accompagnato dal testone-feticcio del prim’attore, Mussolini, souvenir fermacarte per le bollette d’Equitalia.
Statista, condottiero, tribuno autarchico, simbolo di prestanza sessuale mai dimenticato, evocato e sospirato ancora adesso, come gagliardo e prestante amante che debba, prima o poi, fare ritorno a casa per ristabilire “ordine disciplina e gerarchia”, i cardini pratici della sua venuta al mondo della prassi politica e culturale. La ragione di tutto questo? Semplice: il fascismo ha dato i galloni e una presunta dignità, ha fatto sentire davvero importante una categoria sociale votata alla semplificazione dialettica e al bisogno di fare bella figura il giorno della prima comunione dei propri figli, conquistando così l’invidia del vicinato.
In verità, il fascismo, più che una tunica (al Sud, i piccoli maschi, per l’occasione, in verità vestono da cadetti d’aeronautica, con tanto di spadino) fece loro dono di una uniforme affinché ogni piccolo-borghese potesse finalmente mostrarsi in portineria innalzando un sonoro: “Lei non sa chi sono io!”, anzi, un Voi, più virile. Da figlio della lupa a balilla moschettiere, da piccola a giovane italiana, e così via fino ad avanguardista e, su su, arrivando a capomanipolo, centurione o addirittura seniore, console generale, perfino caporale d’onore. Buttali via nel paese dei cav, dei cav uff, dei comm, dei gr cr…, come ricorda Vittorio De Sica!
Non è poco per chi reputi che il sale della dialettica risieda appunto nella semplificazione. Un esempio? Si racconta che quando fu chiesto a Mussolini di inasprire le pene per gli omosessuali, anzi, per i “finocchi” (sic), sempre lì a battere vespasiani littori e solite fratte, questi rispose così: «Ma in Italia non ci sono omosessuali!» Sarebbe stato bello, in quel frangente, ascoltare la voce del poeta *Sandro Penna su una sentenza rassicurante per la virilità nazionale.
Il presente non smentisce gli antichi amori. L’altro giorno, per esempio, il giornale “indipendente” di Belpietro, “La Verità“, ha offerto ai suoi lettori, bisognosi di puntualizzazioni etiche in fatto di storia patria, la lettura di un testo compassionevole di Curzio Malaparte sull’esposizione del cadavere di Mussolini a testa in giù da un distributore “Esso” di piazzale Loreto, il 29 aprile 1945. Un dono significativo, che sembra ancora adesso accompagnare la convinzione che i partigiani, cioè i “comunisti”, si siano macchiati di un crimine inemendabile, giustiziando uno zio amato, e poco importa che il congiunto avesse portato il suo paese alla disfatta morale e bellica, e questo perché appunto il fascismo resta un gioiello di famiglia della memoria nazionale, accanto alla mafia ovviamente, dunque Benito dimora ancora adesso accanto al santino di Padre Pio e alle foto d’ogni altro caro trapassato.
Ho trascorso l’intera giovinezza, non più “primavera di bellezza”, sentendo citare un libro dai compagni di scuola inclini al rispetto appreso in famiglia per il tempo littorio, “Navi e poltrone” dell’ufficiale pilota Antonio Trizzino. Nel tomo si affermava infatti che le responsabilità della sconfitta nel secondo conflitto mondiale erano da attribuire ai “traditori” dello stato maggiore della Marina militare.
«È scritto tutto lì dentro, leggi leggi…», così dicevano, ancora nei Settanta, mostrando il “Diario Balilla” a tutti noi che avevamo invece il “Vitt” o il “B.C.”. Una modalità mentale che, se volete, appare ancora adesso intatta in altri movimenti politici votati non meno del fascismo alla semplificazione, dalla questione immigrazione ai diritti civili. E poi, appunto, perché negare che il lucidante subculturale del fascismo possa sempre tornare utile di fronte a ogni questione che sembri intaccare le certezze domestiche del costume rionale? Pensate, appunto, all’idea dei immigrati percepiti come “invasori”, una certezza che sembra così cancellare perfino ogni faida familiare tra cognati.
Lo so, il discorso meriterebbe una trattazione per nulla apodittica, semmai improntata alla laicità, e non servirà dire che in altri paesi dotati di semplice coscienza civica perfino portatile, la condanna dei fascismi è cosa tacita, non soggetta a un continuo, strumentale, processo di revisione apologetico, necessario per avere consenso presso la pancia, di più, l’intestino di un paese cui ancora adesso sembra inutile ricordare la vergogna delle leggi razziali contro i cittadini ebrei e perfino la semplice retorica bellica e militaresca, tanfo di fureria o da mattinale di questura.
E questo perché, citando Francesco De Gregori, la destra italiana non può dimenticare che “Mussolini ha scritto anche poesie”, cominciando da quella dell’Inps. Inutile ricordare che in Italia la previdenza sociale nasce nel 1898 con la fondazione della “Cassa nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai”, un’assicurazione volontaria integrata da un contributo di incoraggiamento dello Stato e dal contributo anch’esso libero degli imprenditori. E che la pensione sociale viene introdotta solo nel 1969. La leggenda resiste.
Perfino nelle contestazioni alla presidente Laura Boldrini, che giunge a Latina-Littoria per il cambio di nome del parco da “Arnaldo Mussolini”, fratello, a “Falcone e Borsellino”, accolta da un bosco di braccia tese nel saluto romano, c’è infatti lo stesso sentire “familiare”, la cara piccola borghesia che della storia sembra avere trattenuto poche semplici informazioni, il ricordo deferente del “Duce” accanto a quello di Italia-Germania 4-3.
“Un delitto perfetto”, così “Il Giornale” di Alessandro Sallusti ha definito la rimozione del nome dell’amato consanguineo del dittatore in orbace dai pubblici giardinetti della cittadina dell’“agro redento”. Con queste premesse, da qui all’eternità, dimenticando che in quella stessa piazza i fascisti avevano esposto i cadaveri di 15 partigiani trucidati dalla Legione “Ettore Muti”, le disfide per il consenso elettorale vedranno sempre in cima a tutto, come orologio a pendolo da tinello, il feticcio di Mussolini a testa in giù.
LINKIESTA – 22 Luglio 2017
*Sandro Penna (Perugia, 12 giugno 1906 – Roma, 21 gennaio 1977) è annoverato fra i massimi poeti italiani che hanno cantato l’amore omosessuale, e soprattutto fra i più grandi poeti italiani del XX secolo. La sua opera e la sua figura hanno conosciuto negli ultimi anni un ininterrotto processo di rivalutazione critica, peraltro iniziato già prima della sua morte. Ciononostante la discussione della sua omosessualità continua a suscitare il massimo fastidio nei critici letterari italiani. L’influenza di Penna sui giovani poeti omosessuali italiani è comunque oggi avvertibile in modo netto, al punto che non è eccessivo parlare di un suo influsso “formatore” sulla poesia gay italiana contemporanea.
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