Legge Fornero, decreto Poletti sui contratti a termine, Job Act, abolizione Art.18, precariato perenne con 44 tipologie di contratto.
Quale qualità del lavoro e del diritto ci resta?
In un’Italia sempre più delocalizzata e deindustrializzata, come dimostra anche la vicenda della Franco Tosi, quale prospettiva morale ed economica rimane alle generazioni di oggi ma soprattutto a quelle future?
Il 5 marzo 2015 si è svolta presso il Circolo Fratellanza e Pace di Legnano una serata pubblica organizzata dal Comitato Legnanese de L’Altra Europa con Tsipras, sul tema fondamentale del lavoro dal titolo “Diamo Voce al Lavoro – Lavoro e Diritti tra Dignità e Prospettive di Vita”. Relatori Jorge TORRE della Segreteria della Camera del Lavoro Ticino Olona, Antonio VERONA del Dipartimento mercato del lavoro della Camera del Lavoro di Milano, Andrea BORDONE Avvocato Giuslavorista, Nadia ROSA del Comitato di lotta per il Lavoro della segreteria PRC di Milano e diverse testimonianze di lavoratori e precari.
Come testimonianza diretta riportiamo la sintesi dell’intervento fatto da M. Pavan, lavoratore licenziato in attesa di reintegro, già facente parte della RSU di un grosso call center di Milano
Buonasera a tutti, ho lavorato fino al 31 dicembre 2014 in un grosso Call Center di Milano. La storia del nostro settore è drammatica, abbastanza nota e legata agli appalti. Fino al 2008 l’azienda in cui lavoravo contava 1300 lavoratori, poi i lavoratori dipendenti dalla sede di Milano sono scesi a 500, con 800 persone che ci hanno lasciato, magari assunte con contratti a breve termine direttamente dalle agenzie interinali. Nel frattempo però l’azienda non è che sia andata così male, anzi. Ora i dipendenti sono 2500 a livello nazionale, più 500 collaboratori con contratto a progetto, che in realtà è come se fossero dipendenti. In sostanza non c’è mai stata una vera crisi di lavoro nell’azienda; c’è stata invece la corsa degli appalti al ribasso, perché per tutti i servizi, le aste vengono fatte ad oggi con delle basi inferiori al costo contrattuale del lavoro. Perciò, il meccanismo ha funzionato così: io che lavoro a Milano vengo assunto a tempo determinato, acquisto esperienza, acquisto un livello professionale migliore e comincio a guadagnare 1180 euro al posto di 1050, che sono gli stipendi attuali per questi posti di lavoro.
Ad un certo punto l’azienda dice che costiamo troppo; allora si passa da 1300 dipendenti a 500 e vengono fatti spostamenti in altre sedi, Torino, Bari o si aprono altre sedi in Italia. Nel frattempo succede che perdiamo un’altra commessa a settembre 2014, ovvero l’assistenza clienti linee fisse, mobili ecc. di un grosso gestore telefonico. Persa la gara (i servizi di call center ora il gestore telefonico li ha tutti all’estero), la nostra azienda decide allora di chiudere il centro produttivo di Milano. Inizia così una lunga trattativa sindacale, con diversi scioperi, che ottiene infine discreti risultati e si conclude con la cassa integrazione in deroga di circa duecento persone (altre se sono andate).
La cassa integrazione in deroga, neanche straordinaria, è solo di 5 mesi dal 1° gennaio 2015 fino al 31 maggio e poi dal 1 giugno eventualmente il nuovo tipo di occupazione di 18 o 24 mesi a seconda di quanto si è lavorato, tipo di occupazione prevista dal governo ad agosto dell’anno scorso, in previsione dell’entrata in vigore del job act.
Con il sindacato si era pensato anche a una riduzione dell’orario, meno ore meno guadagno ma pur sempre lavoro, ma in merito niente di fatto. Tre ore dopo la firma dell’accordo l’azienda manda la lettera di licenziamento al sottoscritto, per una frase bugiarda che pare io abbia detto sull’amministratore delegato durante uno sciopero (sulla frase gli avvocati ridono per l’inezia dei contenuti). Non sussistendo il fatto, gli avvocati dicono che ho buone possibilità di poter essere reintegrato. In totale dei componenti la RSU, due si dimettono ben pagati, uno viene licenziato, cinque vanno in cassa integrazione e uno della Cisl viene ricollocato su una attività di servizio. Così fatto l’azienda ha azzerato il sindacato interno perché le attuali normative glielo permettono, consentendogli così di fare poi quello che vuole.
Un esempio di cosa vuol dire vivere di appalti: l’azienda ha un contratto con ATM (Azienda Trasporti Milano totalmente di proprietà del comune), contratto molto impegnativo perché ATM è coinvolta in eventi molto importanti quali per es. il 1°maggio della Scala, l’EXPO, ecc. L’azienda ad un certo punto si lamenta con il cliente che i servizi richiesti erano troppo impegnativi per la somma concordata. Così ATM, forse stizzita dal comportamento dell’azienda, con una lettera annulla il contratto per continuata mancata erogazione del servizio, a causa di un nostro sciopero fatto durante la vertenza sindacale. Contemporaneamente i colleghi di un altro call center, che ha in appalto tutti i servizi informativi via telefono del comune di Milano, erano in piazza con noi, perché con l’asta fatta dal Comune era impossibile pagare i lavoratori con un contratto negoziale fra azienda e sindacati …
Cosa succede, però? Qualcuno comunque riesce a prendere l’attività, perché, magari utilizzando mille artifizi, riesce a pagare le persone 950 euro lordi al posto di 1050 e con contratto magari del commercio al posto di quello delle telecomunicazioni …
I lavoratori dipendenti da sempre sono i maggiori contribuenti ed è impensabile paghino le tasse, per poi farsi licenziare ed essere, se va bene, riassunti a tutele inesistenti.
E’ una pura follia, di cui bisogna purtroppo prendere atto.
Finché un certo tipo di azienda come i call center, veniva usate dalle grandi industrie e dal capitale per abbattere i costi interni, tutto poteva avere senso in una logica di profitto, ma che un’amministrazione comunale, adducendo come causa principe le problematiche di bilancio, consideri determinati lavori come dei costi da abbattere è davvero singolare e preoccupante. Che futuro potremo avere?
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